Scegli un terapeuta che…

Scegli un terapeuta che… non sia iatrogeno

Di Francesca Vulpiani

Cominciamo col definire cosa si intende per terapia iatrogena. Il termine IATROGENESI viene dal greco (iatròs: medico + gennan: generare). Letteralmente lo possiamo tradurre con: ciò che è causato dal medico o dalla medicina. Ci occupiamo quindi di tutte quelle situazioni in cui si ipotizza che il peggioramento del paziente non sia dovuto alla struttura stessa della persona in cura, ma avvenga in seguito alle operazioni del curante.

Nel linguaggio psicoterapeutico il rischio iatrogeno definisce in senso più specifico il problema della responsabilità e dell’etica della psicoterapia. Al di là delle possibili cause esterne, quanto può influire lo psicoterapeuta nel creare malessere durante lo stesso processo di cura? Il processo psicoterapico si fonda su fattori aspecifici e specifici; la iatrogenia della psicoterapia può essere legata al malfunzionamento o all’assenza di uno qualunque di questi fattori. Tra i fattori aspecifici si può includere l’età, e la differenza di età tra paziente e terapeuta, il sesso, la condizione sociale, il livello culturale e, assai importante ma meno precisamente definibile, l’empatia. Tra i fattori specifici ricordiamo la teoria di base del terapeuta, intesa come paradigma di riferimento, e la teoria della tecnica, che determina la modalità di svolgimento del processo psicoterapico. Ad essa sono connesse la modalità di fornire l’interpretazione, la gestione del transfert e del controtransfert e, più generalmente, la modalità di conduzione della psicoterapia. Nel paradigma psicanalitico ad esempio la modalità di conduzione può essere di tipo uncovering, più connessa al modello psicoanalitico classico, o di remaking, secondo gli sviluppi più recenti maggiormente improntati sulla relazione che sull’introspezione. In questo secondo caso l’obiettivo non è più tanto la scoperta dei conflitti, ma la riparazione relazionale, attraverso il transfert, di modalità conflittuali e frustranti del passato. Il focus, secondo un linguaggio analitico-transazionale, diventa quindi l’esperienza emozionale correttiva e la possibilità di introiettare l’analista come genitore interno affettivopositivo. Ciò che ho sinteticamente descritto potrebbe essere parzialmente utile come orientamento nella scelta del terapeuta con cui intraprendere un percorso.

Piuttosto che andare a scatola chiusa sarebbe opportuno porsi delle domande prima di decidere in quale direzione muoversi. Faccio una sintesi parziale, tutt’altro che esaustiva: – Avrei più facilità ad aprirmi con un uomo o con una donna? – Potrei lavorare meglio con un terapeuta giovane o con uno anziano? – Mi sentirei più comodo in contesto formale o informale? – Ho bisogno (emotivamente intendo) di un setting più rigido o più elastico? – Vorrei che il mio analista mi desse del tu o del lei? – Preferirei un professionista “al timone” o un “co-pilota”? – Cosa so del suo modello teorico di riferimento? – Quali sono i principi filosofici su cui si fonda? – Che cosa intende per cura? – Cosa per guarigione? Probabilmente leggendo queste domande si starà facendo strada un dubbio nella vostra mente: come faccio a sapere cosa è meglio per me? Effettivamente non è affatto semplice, anche perché si tratta di variabili estremamente personali e magari soggette a cambiamento nella nostra storia (ad esempio potrei trarre giovamento in una fase della mia vita da un terapeuta dall’approccio “soft” – accogliente, molto empatico e supportivo – e in un’altra fase avere bisogno di confrontarmi con uno stile più direttivo). In conclusione credo che il punto in questione non sia trovare risposte giuste, ma approcciarsi alla difficile scelta di un terapeuta in maniera auto-analitica (ponendosi delle domande insomma!), visto che LA SCELTA DEL TERAPEUTA E’ GIA’ TERAPIA. Riprendiamo ora il nostro argomento iniziale, ovvero il rischio iatrogeno in psicoterapia. Se è vero che alcune variabili sono del tutto soggettive, è vero anche (per fortuna!) che ce ne sono altre che, oggettivamente, ci permettono di definire se il professionista che abbiamo di fronte è un buon professionista o meno.

Dal mio punto di vista tutti gli errori del terapeuta (quelli che possono creare un danno reale al paziente) sono riconducibili a tre categorie: – interventi legati a interferenze controtransferali. – errori di tecnica. – problemi etici.

Transfert e controtransfert appaiono, sia da un punto di vista teorico che clinico, come due facce della stessa medaglia: la relazione Terapeuta-Paziente. Il transfert è un fenomeno tipico del rapporto tra paziente e analista, basato sulla convinzione che i rapporti importanti dell’infanzia caratterizzino tutte le successive relazioni. Nello specifico il transfert influisce sulle aspettative nei confronti dell’altro e porta a rivivere i sentimenti e le emozioni tipiche del rapporto avuto con le figure chiave dell’infanzia (tipicamente i genitori). Non è un fenomeno esclusivo della terapia in quanto può riversarsi in ogni relazione con persone che giocano un ruolo importante (sia positivo, sia negativo) nella vita di un individuo. L’altro lato del transfert è il controtransfert, vera innovazione e grande svolta nella riflessione sulla terapia, in quanto fa riferimento al coinvolgimento emotivo che l’analista prova nei confronti del paziente, al di là della propria veste professionale. Freud per primo parla di transfert grazie alla conoscenza del caso di Anna O. (1882). Anna era una ragazza ventunenne di grande bellezza e intelligenza che manifestava diversi sintomi riconducibili all’isteria. Il suo dottore, Breuer, terminò bruscamente il percorso terapeutico, spaventato dal reciproco coinvolgimento emotivo lasciando il caso in mano a Freud. Questi fu in grado di rielaborare questi segnali in preziose indicazioni generali sul rapporto terapeutico. Altri psicanalisti ripresero successivamente questo concetto. Per M. Klein il transfert deriva dalle primissime relazioni che il neonato stabilisce con gli oggetti d’amore. Secondo Jung non si tratta di un fenomeno di natura sessuale o legato a relazioni già vissute, ma può essere anche l’espressione di tendenze psichiche ancora inespresse che vanno esplorate durante la terapia. I fenomeni controtransferali sono considerati in letteratura psicanalitica uno strumento indispensabile per avere accesso all’inconscio del paziente. “Il controtransfert fornisce elementi fondamentali nell’analisi di transfert” (Novellino, 1984). Tale processo è reso possibile dal fatto che il terapeuta, facendo affidamento sulla sua capacità intuitiva, può “leggere” a partire dalle proprie reazioni ai processi comunicativi del paziente, messaggi fuori dalla consapevolezza di quest’ultimo. Quand’è che il controtransfert diventa negativo? Petruska Clarkson parla di controtransfert reattivo e proattivo: nel primo caso parliamo di materiale proiettivo del paziente a cui il terapeuta reagisce; nel secondo caso invece si tratta di materiale che viene proiettato sul paziente e che nasce dalla storia personale del terapeuta. Il controtransfert reattivo è materiale prezioso per l’analista, permette di scoprire aree di non consapevolezza del paziente. Ma facciamo un esempio: mi capita di provare una sensazione di fastidio in una fase della terapia nei confronti di un paziente. Stando in contatto con la mia emozione mi rendo conto che è la stessa sensazione che altri riportano nel parlare con lui. Che significa? Che probabilmente la persona agisce una modalità relazionale, al di fuori della sua consapevolezza, che ha proprio l’obiettivo inconscio di elicitare quel tipo di risposta. E’ proprio grazie all’analisi del mio controtransfert che posso svelare “il gioco” del paziente e successivamente aiutarlo a trovare nuove modalità. Nel controtransfert proattivo invece la mia reazione non è in risposta a ciò che il paziente fa o dice, si tratta solo ed esclusivamente di una mia proiezione (quindi un mio transfert). Ad esempio: provo una forte rabbia nei confronti di un paziente perché mi ricorda una persona del mio passato che mi ha fatto tanto soffrire. Se non sono consapevole di questa somiglianza rischio di seguire piste sbagliate, di fornire interpretazioni non adeguate dei processi della persona, potrei come minimo creare una frattura relazionale e addirittura rischiare di boicottare le risorse verso l’evoluzione personale del paziente. Vorrei aggiungere, prima di passare agli errori di tecnica, che incorrere in un controtransfert proattivo è esperienza abbastanza usuale per i terapeuti (anche quelli bravi!). Tuttavia i professionisti che fanno costantemente supervisione sul proprio lavoro e quelli che hanno alle spalle vari anni di terapia personale sicuramente hanno maggiore consapevolezza dei propri punti deboli e quindi possono più facilmente correre ai ripari. Rivolgo questo mio articolo prevalentemente ai non addetti ai lavori, quindi mi rendo conto che non è il caso di parlare di errori di tecnica in maniera troppo approfondita. Tuttavia è indubbio, che spesso, sono proprio gli errori di tecnica a determinare i drop-out (gli abbandoni precoci) in terapia. Vorrei soffermarmi, consapevole che si tratta di una piccola parte del tutto, sugli errori di timing nell’uso di alcune tecniche psicoterapiche. Va da sé che a volte, per motivi che ora non abbiamo il tempo di analizzare, il terapeuta può sbagliare proprio la scelta della tecnica da utilizzare; altre volte invece la tecnica è quella giusta, ma il tempo in cui viene proposta non è decisamente opportuno. Pensiamo ad esempio all’interpretazione nel processo analitico. La vera differenza tra un buon professionista e un professionista con buone capacità intuitive, ma poca esperienza sta proprio lì: la scelta opportuna del timing, la fase giusta in cui proporre una nuova chiave di lettura non deve essere legata all’insight del terapeuta, ma solo ed esclusivamente al momento in cui il paziente è davvero pronto a farne tesoro.

Dopo aver appena accennato agli errori di tecnica, che certo non sono l’oggetto centrale di questo articolo, passiamo infine ai problemi etici. Questi ultimi sono sicuramente quelli di cui il paziente può più facilmente rendersi conto. Il codice deontologico degli psicologi italiani fornisce chiare indicazioni per valutare se il comportamento di uno psicoterapeuta sia conforme o meno ai principi etici. Ecco una lista di comportamenti di fronte ai quali siamo sicuramente in presenza di una violazione etica da parte del terapeuta: – Lo psicoterapeuta opera delle discriminazioni in base alla religione, all’etnia, alla nazionalità, all’estrazione sociale, allo stato socio-economico, al sesso, all’orientamento sessuale, o alla condizione di disabilità del paziente. – Lo psicoterapeuta cerca di imporre i propri valori sul paziente. – Lo psicoterapeuta usa la propria influenza per modificare le convinzioni politiche del paziente o il suo credo religioso. – Lo psicoterapeuta non rispetta la privacy del paziente. – Il paziente è mantenuto in una situazione di dipendenza dal terapeuta. – Lo psicoterapeuta non è preparato e aggiornato professionalmente. – Lo psicoterapeuta mischia vita professionale e vita privata con il paziente. – Lo psicoterapeuta effettua interventi di psicoterapia con persone con le quali ha intrattenuto o intrattiene relazioni significative di natura personale, in particolare di natura affettivo-sentimentale e/o sessuale. – Lo psicoterapeuta utilizza il proprio ruolo ed i propri strumenti professionali per assicurare a sé o ad altri indebiti vantaggi.

A questa lista imprescindibile di violazioni etiche aggiungo delle considerazioni personali, condivise senza dubbio da molti altri colleghi. Si tratta di modalità che, se pur non punibili a norma di legge, spesso pregiudicano il buon esito di una psicoterapia: – Lo psicoterapeuta non ha effettuato una terapia personale. – Lo psicoterapeuta non è in grado di spiegare in che modo il processo di psicoterapia aiuterà la persona a raggiungere i proprio obiettivi. – Lo psicoterapeuta effettua interventi di psicoterapia individuale con persone che hanno tra loro importanti rapporti di natura personale. – Lo psicoterapeuta critica e colpevolizza il paziente. – Lo psicoterapeuta biasima la famiglia, gli amici o il partner del paziente. – Lo psicoterapeuta dà consigli avventati. – Lo psicoterapeuta parla eccessivamente (di sé) senza che ciò abbia uno scopo terapeutico. – Lo psicoterapeuta non parla per niente. – Lo psicoterapeuta non ricorda importanti informazioni del paziente. – Lo psicoterapeuta non presta attenzione al paziente. E con questo ho concluso la mia breve trattazione sul rischio iatrogeno in psicoterapia. Spero con queste mie indicazioni, tutt’altro che esaustive, di aver fornito alcuni criteri nella difficile scelta di un terapeuta e nella ancora più difficile valutazione di una terapia in corso…

BIBLIOGRAFIA – Bianciardi, M.- Telfener U. (1998) “Ammalarsi di psicoterapia. Il rischio iatrogeno nella cura”, Franco Angeli. – Clarkson, P. (1992)”Further through the looking glass: explorations of transference and countertransference”, TAJ, 21, 2, pp.99-107. – Freud, S.: Analisi terminabile e interminabile (1937). In O.S.F. vol. 11, Boringhieri, Torino, 1979. – Novellino, M. (1984), “Self-analysis of countertransference in integrativeTA”, TAJ, 14,1 , pp. 63-67. – https://www.psy.it/codice-deontologico-degli-psicologi-italiani