“Prendi posizione!La neutralità favorisce sempre l’oppressore, non la vittima” (Elie Wiesel)
Il contrasto alla violenza di genere non è soltanto una grande questione di civiltà e di rispetto dei diritti umani ma è oggi anche una vera e propria “questione sociale”, dal momento che riguarda trasversalmente classi, famiglie, generazioni, gruppi etnici di riferimento.
Come sostiene l’Organizzazione Mondiale della Sanità è inoltre un grave problema di salute pubblica, che incide direttamente sul benessere fisico e psichico delle
donne e indirettamente sul benessere sociale e culturale di tutta la popolazione. Una questione epocale, per dimensione e sviluppo nel tempo, troppo spesso colpevolmente sottovalutata. Ma, allo stesso tempo, la violenza di genere è anche un fenomeno assai difficile da contrastare, perché si annida negli interstizi della società, spesso sfuggenti e
insospettabili, manifestandosi per lo più silenziosamente nella vita quotidiana e riuscendo a rappresentarsi come un evento accidentale persino nella percezione delle stesse vittime.
la violenza contro le donne spesso assume il carattere dell’invisibilità:
invisibile perché si consuma all’interno del privato dei rapporti familiari e affettivi, perché non sempre se ne riconoscono i contorni e i contenuti, invisibile anche perché la comunicazione e l’informazione mediatica generano spesso ambiguità, pregiudizi, stereotipi che danno luogo a percezioni distorte e a sovrapposizioni di significato.
La violenza di genere, perlopiù in ambito familiare, è dunque una realtà statisticamente in aumento, ma non salta immediatamente agli occhi come tale.
Chiaro è quindi che la violenza di genere non è imputabile a un “mostro”, alla strada, ma ha radici più profonde di quanto i media vogliano far credere: è un fenomeno trasversale, interessa tutte le classi perché sta “dentro” il nucleo base della comunità, la famiglia.
è evidente che viviamo un clima sociale culturalmente schizofrenico rispetto alla violenza maschile: essa viene in qualche modo ritualizzata e promossa in pratiche quotidiane di educazione maschile, anche in contesti come il mondo scolastico, sportivo ecc., eppure il nuovo ruolo sociale delle donne rende molto più complessa l’accettazione di modelli maschili di questo tipo. Certo la violenza maschile è una forma appresa, o conseguenza di problemi psichici, ma anche una dimensione quotidiana che ha radici
nel processo culturale carsico e resistente sulle dinamiche di potere ‘uomo-donna’ e in processi educativi diffusi (cosa è il femminile, cosa è il maschile): in questa rimozione collettiva si devono vedere le radici e la persistenza della violenza.
Per comprendere e contrastare il fenomeno è necessario, infatti, tenere in considerazione i diversi ambiti di riferimento della donna: socio-culturale, relazionale e individuale.
A tutt’oggi persistono radicate convinzioni (modelli socio-educativi e relazionali trasmessi tra generazioni) che vedono la donna subordinata all’uomo e come soggetto dipendente nel rapporto affettivo. Convinzioni che affidano alla donna la funzione di cura nelle relazioni, a discapito della reciprocità e della possibilità di fare richieste basate sui propri desideri e bisogni.
Un primo fondamentale elemento di prevenzione e protezione è dunque
rappresentato da un cambiamento a livello sociale e culturale che porti a fare emergere sempre più il problema e riconosca e valorizzi la differenza, la reciprocità dei ruoli tra uomo e donna nonché le risorse di ognuno.
Riconoscere la violenza subita presuppone il percepirsi come persona degna e positiva. Le donne che hanno subito violenza invece provano vergogna, si sentono in colpa, si considerano inadeguate e incapaci di reagire. La violenza è, infatti, un attacco all’integrità fisica e psichica della donna che produce pesanti effetti e conseguenze: un potente fattore di rischio per la salute mentale della donna.
Per tali motivazioni realizziamo il Progetto Antera – al fine di essere promotori di un cambiamento culturale, assumendo una posizione e non favorire l’oppressor