La medicina della mente.

Data di pubblicazione: 4 ottobre 2019

Lo psicologo svolge attività sanitaria riconosciuta dallo Stato Italiano e può svolgere attività di diagnosi, cura, prevenzione e riabilitazione. Per tale motivo svolge atti sanitari con le responsabilità ad essi connessi. Se specializzato in psicoterapia svolge un atto medico, ossia un atto svolto al fine di promuovere la salute e il funzionamento, prevenire le malattie, effettuare diagnosi, prescrivere cure terapeutiche o riabilitative, nei confronti dei pazienti, individui, gruppi, comunità nel quadro delle norme etiche e deontologiche

La psicoterapia è quindi un atto medico finalizzato alla cura e alla guarigione della malattia mentale: questa idea forte, che si impone nel dibattito culturale anche per le ripetute sollecitazioni della giurisprudenza. Il senso di “medicina della mente” si riferisce alla intenzionalità di affrontare, per curare, la malattia psichica. I duri attacchi di quanti non hanno voluto accettare il pensiero di una originaria sanità mentale che, come tale, poteva cadere nella malattia, hanno con ciò stravolto il significato della parola “psicoterapia”, diventata per molti sinonimo di assistenza, “prendersi cura” che presuppone l’immutabilità e quindi l’incurabilità della condizione altrui (Fagioli, M)

DIAGNOSI PSICOLOGICA E DIAGNOSI PSICHIATRICA – La diagnosi psicologica, , è un giudizio clinico teso a valutare aspetti e processi della personalità, modalità relazionali, livelli di competenze cognitive, struttura della personalità, e in genere a descrivere le funzioni psichiche del soggetto, normali e patologiche. È una sorta di “mappatura” del funzionamento psichico che si traduce in una descrizione narrativa il più possibile sistematica e deve rispondere sia a requisiti di specificità (che cosa caratterizza quel dato individuo) sia di generalizzabilità (che cosa ha in comune quell’individuo con altri che presentano caratteristiche simili). Tale diagnosi è effettuata unicamente con strumenti tipici (non esclusivi) della professione di psicologo, quali il colloquio clinico, l’osservazione, la somministrazione di test di personalità o di livello. n Diagnosi psichiatrica – Intendiamo con diagnosi psichiatrica il giudizio clinico consistente nel riconoscimento o nell’esclusione di una condizione morbosa dell’apparato psichico, tendente a un inquadramento nosologico della patologia riscontrata, secondo i criteri stabiliti dalle classificazioni internazionali. Tale diagnosi è effettuata attraverso il colloquio clinico, l’osservazione e con la somministrazione di test e di altri strumenti di indagine di competenza medica. La diagnosi psicologica, quindi, «comprende un ventaglio più ampio di obiettivi di rilevamento di dati e nello stesso tempo un repertorio più ristretto di strumenti diagnostici» (Calvi, 2013). Nella diagnosi psicologica, soprattutto in ambito forense, l’utilizzo della nosografia descrittiva della psicopatologia, come si è detto, è a volte oggetto di contestazione, ad esempio da parte di alcuni psichiatri che ritengono di loro esclusiva pertinenza l’utilizzo di manuali diagnostici e la classificazione in essi contenuta (si veda, ad esempio, il DSM nelle sue diverse edizioni), contestazioni che causano poi incertezze e conflitti tra avvocati, e tra magistrati e avvocati, sulla definizione delle competenze professionali dei consulenti. L’argomentazione proposta dai colleghi psichiatri non è sostenibile per le ragioni sopra evidenziate, ma anche a causa del fatto che il ragionamento da essi proposto pone l’accento sulla qualità dell’atto professionale (la diagnosi di psicopatologia e la sua classificazione nosografica) che sarebbe di esclusiva pertinenza medico-psichiatrica, configurando di fatto, per questa ragione, l’attività diagnostica dello psicologo attraverso una classificazione nosografica come un abuso di professione. Appare utile al riguardo rinviare al concetto di “atto tipico di una professione”, che permette di chiarire i confini del corretto operare professionale. Ciò che consente di individuare un atto professionale dello psicologo come tipico, oppure no, è l’uso di determinati strumenti e non semplicemente la finalità dell’atto (in questo caso la diagnosi) o le conclusioni alle quali giunge l’atto stesso (patologia o normalità del funzionamento psichico). Oltre a ciò, l’atto professionale dello psicologo, per essere definito “tipico”, deve radicarsi in una teoria appartenente all’area della psicologia e riferirsi a uno “scopo” o “finalità” specifici della professione che, nel nostro caso, sono indicate dall’art. 1 della legge 56/89 sull’ordinamento della professione di psicologo. «Un atto tipico dello psicologo è quell’atto che si avvale di certi strumenti e che insieme si radica, nella scelta e nell’uso degli strumenti stessi, su quelle conoscenze teoriche e su quelle abilità tecniche che derivano dalla sua specifica formazione in campo psicologico. Vi è dunque una coniugazione tra la teoria e la tecnica, per cui la teoria senza tecnica rimane nel campo puramente astratto e speculativo, mentre la pratica senza un fondamento teorico conduce all’attività selvaggia […]» (Calvi, 2013); a ciò si aggiunge «la finalità dell’atto, volto alla conoscenza dei processi mentali consci e inconsci e l’eventuale intervento sulla realtà psichica dell’altro» (Idem). La differenza tra l’atto diagnostico compiuto dallo psicologo o dallo psichiatra trova quindi la sua differenza negli strumenti utilizzati e utilizzabili (e non nella finalità dell’atto), strumenti che nel caso dello psichiatra sono più ampi, in quanto egli ha la possibilità di utilizzare strumenti di indagine di esclusiva compe-tenza medica. Ovvero: nel momento in cui psicologo e psichiatra effettuano una diagnosi psicopatologica attraverso l’osservazione, il colloquio clinico e attraverso la somministrazione di test, operano utilizzando strumenti comuni alle due professioni (e anche con la stessa metodologia, se entrambi fanno riferimento allo stesso modello teorico scientifico), per la medesima finalità. Viceversa, nel caso in cui lo psichiatra decida, ad esempio, di pervenire a una diagnosi “ex juvantibus”, attraverso la somministrazione di farmaci, opera utilizzando strumenti di esclusiva pertinenza medica. Inoltre, al di là dell’uso di strumenti specifici della disciplina psicologica, la diagnosi comporta la risposta a domande di natura psicologica: «I fatti descritti diventano oggetti psicologici, anche se gli stessi fatti potrebbero essere oggetti di altre scienze, se indagati e descritti secondo quesiti, procedure e codici propri di altre scienze»; inoltre, le opzioni metodologiche e le prassi operative realizzate dal professionista psicologo non solo «ritagliano e costruiscono l’oggetto psicologico, ma poiché possono essere mostrate, esplicitate e constatate dall’interlocutore garantiscono anche la possibilità di verifica e accordo soggettivo» (Granieri, 2010).

Nell’esercizio dell’attività diagnostica, come di qualsiasi altra attività professionale, lo psicologo ha l’obbligo di esercitare non solo in scienza, ma anche in coscienza. Ciò determina l’assunzione non solo di responsabilità morali, ma anche di responsabilità giuridiche. n L’art. 5 del Codice Deontologico prescrive inoltre: «Lo psicologo è tenuto a mantenere un livello adeguato di preparazione professionale e ad aggiornarsi nella propria disciplina specificatamente nel settore in cui opera. Riconosce i limiti della propria competenza e usa, pertanto, solo strumenti teorico-pratici per i quali ha acquisito adeguata competenza e, ove necessario, formale autorizzazione. Lo psicologo impiega metodologie delle quali è in grado di indicare le fonti e i riferimenti scientifici, e non suscita, nelle attese del cliente e/o utente,aspettative infondate». Quindi, nell’ambito delle possibilità riconosciute formalmente dalla legge di effettuare diagnosi psicologica e delle possibilità operative derivanti dalla propria formazione, il singolo psicologo risponde giuridicamente della propria competenza nell’uso della metodologia diagnostica, degli ambiti di applicazione della propria attività psicodiagnostica, dei risultati in tal modo ottenuti e del giudizio diagnostico finale espresso. In relazione all’art. 5 del Codice Deontologico, lo psicologo è quindi responsabile giuridicamente di un’azione professionale per imperizia o altro difetto di competenza e di esecuzione tecnica. Nell’ambito clinico-forense, inoltre, si sono condivise nel tempo ”linee guida” e “buone prassi” riconosciute dalla comunità scientifica di riferimento e inserite nel percorso formativo specialistico (Psicologia Giuridica, Psichiatria Forense, Criminologia Clinica, Psicologia Clinica), che strutturano e supportano, in termini deontologici e metodologici, le attività del professionista nell’ambito peritale (Linee guida AIPG, SINPIA, CISMAI, Protocollo di Milano, Carta di Noto, Protocollo di Venezia, ecc.). Citiamo ad esempio la Carta di Noto (anche nelle integrazioni successive del 2002 e del 2011), che indica le linee guida da utilizzare nell’ambito dell’ascolto del minore vittima/testimone di reato. La metodologia in essa indicata è ormai riferimento accreditato e condiviso trasversalmente dalle figure professionali coinvolte, al fine di ottenere un corretto svolgimento delle operazioni peritali e una conseguente corretta valutazione in termini metodologici, tecnici e scientifici delle risultanze riconosciute, quindi, in tal senso, anche giuridicamente.

cit.  Consulta Psicoforense dell’Ordine degli Psicologi del Piemonte