La Psicoterapia è efficace?

Parloff (1985) ha cercato di rispondere alle seguenti sette domande:

  1. La psicoterapia è efficace?
  2. Quali tipi di psicoterapia sono più efficaci per il trattamento di quali problemi o pazienti?
  3. La psicoterapia è dannosa?
  4. Qual’è il rapporto costi/benefici della psicoterapia?
  5. Esiste una correlazione positiva tra risultati e durata della psicoterapia?
  6. Esiste una correlazione positiva tra risultati ed esperienza del terapeuta?
  7. I risultati della psicoterapia sono stabili nel tempo?

Riassumo brevemente le sue considerazioni per ognuna di queste domande, ampliando alcuni dei suoi dati, che sono aggiornati al 1985, con dati più recenti riportati da Lambert & Bergin (1994).

1) La psicoterapia è efficace?

Questa è una domanda estremamente ingenua, e stupisce che continui ad essere posta. Nessuno ad esempio si chiede se “la chirurgia è efficace”, dando per scontato che dipende da quale intervento chirurgico per quale tipo di disturbo. Si assume cioè ingenuamente che il campo della psicoterapia sia un campo omogeneo (come se vi fosse un solo intervento e per una sola malattia, magari definita “disturbo mentale”), mentre invece esistono almeno tre filoni teorici principali (psicodinamico, cognitivo-comportamentale, ed umanistico-esperienziale – qust’ultimo a volte definito la “terza forza” del movimento psicoterapeutico) e più di 250 forme di psicoterapia (Herink, 1980) apparentemente diverse tra loro (Kazdin [1986] ha elencato addirittura più di 400 psicoterapie diverse), utilizzabili in teoria per le circa 300 categorie diagnostiche elencate dal DSM-IV (American Psychiatric Association, 19

il vero problema era che la metodologia degli studi condotti fino a questo punto rendeva la superiorità della psicoterapia non solo non imponente, ma anche molto debole. La dimostrazione dell’efficacia della psicoterapia emerse come imponente solo quando i ricercatori adottarono la nuova metodologia statistica della “meta-analisi”: come si è detto prima a proposito della prima fase del movimento di ricerca in psicoterapia, la meta-analisi permette di integrare i risultati derivati da studi diversi. Furono Smith, Glass & Miller (1980) che per primi fecero una review meta-analitica di 475 studi sull’efficacia della psicoterapia. Essi inclusero tutti gli studi pubblicati e non pubblicati che avessero paragonato almeno un gruppo trattato con un gruppo non trattato o messo in lista d’attesa o trattato con una terapia differente, e paragonarono 1766 dimensioni del risultato (effect size), dimostrando che di fatto la psicoterapia è efficace, e precisamente che la persona che riceve una terapia alla fine in prospettiva sta meglio di circa l’85% dei pazienti che non l’hanno ricevuta.

la rigorosa review di Lambert & Bergin (1994) concluse che se è vero che vi è una remissione spontanea in alcuni gruppi di controllo non trattati, e un miglioramento in molti pazienti trattati con “placebo”, le psicoterapie in media ottengono risultati nettamente superiori sia ai controlli non trattati che al “placebo”, e che questi risultati tendono ad essere abbastanza duraturi. Non va dimenticato però che se sembra dimostrato che la psicoterapia nel complesso è efficace (Garfield, 1983), molti ricercatori continuano a metterne in dubbio l’efficacia (Rachman & Wilson, 1980; Prioleau, Murdock & Brody, 1983; Eysenck, 1983, 1992).

Infine, merita qui di essere segnalata una recente review meta-analitica di Wexler & Nelson (1993) sulla terapia ambulatoriale della depressione maggiore, dove è stato dimostrato che la psicoterapia risulta essere nettamente superiore ai farmaci: il 58% dei pazienti trattati solo con psicoterapia mostra un risultato positivo, contro il 46% di quelli trattati solo con farmaci, e la percentuale dei successi sale al 64% se la psicoterapia è combinata a farmaci; non solo, ma la superiorità della psicoterapia aumenta ulteriormente se si considera il numero dei drop-out, che nei pazienti trattati solo con farmaci è più alto, e precisamente il 26%, mentre per i pazienti in psicoterapia i drop-out sono il 14% e per quelli in terapia combinata il 28%. La maggiore efficacia della psicoterapia della depressione rispetto agli psicofarmaci è sottolineata anche dalla autorevole review di Lambert & Bergin (1994, p. 145), i quali ammettono una superiorità degli psicofarmaci solo nella depressione endogena e nel breve periodo, ma non certo nel medio-lungo periodo; vi è anche chi ha avanzato l’ipotesi che i farmaci possano predisporre ad un aumento di recidive e alla cronicità (Fava, 1994, 1995). Inutile ricordare che questi dati vengono attentamente ignorati da molti autorevoli esponenti della disciplina in un’epoca, come quella contemporanea, nella quale viene attribuito molto rilievo alla terapia farmacologica.

2) Quali tipi di psicoterapia sono più efficaci per il trattamento di quali problemi o pazienti?

In teoria, per rispondere a questa domanda, dovremmo testare ciascuna delle molte psicoterapie ora sul mercato con ciascuno dei circa 300 disturbi descritti dal DSM-IV. Ma in realtà l’elenco dei disturbi sarebbe molto maggiore, perché spesso la psicoterapia non viene richiesta solo per i disturbi elencati dal DSM-IV, ma anche per i comuni malesseri e le sofferenze della vita quotidiana.

Smith, Glass & Miller (1980) conclusero che i benefici della psicoterapia erano in funzione delle seguenti quattro variabili:

  1. i criteri usati per valutare il risultato;
  2. il tipo di strumenti di misurazione usati;
  3. il momento della valutazione;
  4. il tipo di pazienti trattati.

Indipendentemente dal tipo di terapia, i maggiori risultati si ottenevano per l’ansia, le fobie, il funzionamento globale, i sintomi psicosomatici, e lo sviluppo personale. I minori risultati si ottenevano per l’adattamento, lo stress psicologico, il progresso lavorativo o scolastico, e i tratti di personalità. I maggiori risultati erano di solito associati con le seguenti tre variabili:

  1. misurazioni tramite l’uso di questionari completati dal paziente, cioè tramite il metodo “carta e penna”;
  2. misurazioni fatte subito dopo la fine della terapia;
  3. trattamenti di pazienti monosintomatici fobici o depressi.

Dato che per il trattamento dei pazienti monosintomatici le terapie comportamentali di solito sono molto più usate delle terapie dinamiche in quanto si prestano meglio alle misurazioni che si vogliono eseguire, non stupisce che sia stata riportata una superiorità della terapia comportamentale (Rachman & Wilson, 1980; Agras, Kazdin & Wilson, 1979). Ma quando questi reperti sono stati corretti includendo anche la natura dei problemi trattati e il tipo di misurazioni usato, l’apparente vantaggio delle terapie comportamentali su quelle dinamiche diminuiva o i risultati erano equivoci.

In generale, il “paradosso della equivalenza”, cioè quello che alcuni per brevità chiamano il “verdetto di Dodo” (Luborsky, Singer & Luborsky, 1975), è derivato da ricerche su terapie rivolte ai seguenti disturbi: depressioni non psicotiche, ansia lieve o moderata, paure e fobie semplici, compulsioni, disfunzioni sessuali, reazioni alle crisi delle varie fasi del ciclo vitale, e problemi della vita quotidiana quali adattamento professionale e coniugale.

3) La psicoterapia è dannosa?

E’ estremamente difficile calcolare la iatrogenicità della psicoterapia. Va anche ricordato che in genere sono state studiate solo le psicoterapie riconosciute, e non tutti quegli altri interventi che sono ai margini della professione (gruppi di incontro, di crescita personale, e così via) dove si può supporre che il danno a volte possa essere maggiore. Secondo Bergin (1971) circa il 10% di coloro che intraprendono una psicoterapia ne ricevono un danno, mentre solo il 5% dei pazienti appartenenti ai gruppi di controllo non trattati mostrano effetti negativi. Anche Lambert, Bergin & Collins (1977), sulla base dell’analisi di 48 studi, conclusero che la psicoterapia può essere dannosa, ma Strupp, Hadley & Gomes-Schwartz (1977) riesaminarono i 48 studi citati da Lambert, Bergin & Collins e li trovarono così lacunosi che non era possibile dimostrare che la psicoterapia produceva effetti negativi a un tasso maggiore del 3-6%, che è lo stesso osservato nei pazienti in lista d’attesa. Essi vollero condurre una propria ricerca basata su un questionario, ottenendo risposte da circa 70 ricercatori, teorici e clinici esperti, i quali risposero, quasi all’unanimità, che “esiste un reale problema di effetti negativi della psicoterapia”. Nonostante le insufficienti prove empiriche, sembra dunque che vi sia un consenso sul fatto che la psicoterapia, se praticata in modo inappropriato, possa produrre effetti nocivi, anche se Smith, Glass & Miller (1980), nella loro revisione di 475 studi sul risultato della psicoterapia, non trovarono la presenza di effetti negativi. Recentemente, Ogles, Lambert & Sawyer (1993) hanno provato a studiare gli effetti negativi della psicoterapia utilizzando i dati emersi dall’imponente studio multicentrico sponsorizzato dall’NIMH sulla terapia della depressione (Elkin et al., 1989), e hanno trovato che gli effetti negativi erano il 5% per il farmaco antidepressivo Imipramina combinato a colloqui informali, e variavano (secondo le scale di valutazione usate) dal 5% all’8% per il placebo combinato a colloqui informali, dal 10% al 13% per la terapia cognitiva, e dallo 0% al 2% per la “Terapia Inter-Personale” (IPT) di Klerman et al. (1984).

Sembrerebbe quindi dimostrato che la psicoterapia possa avere anche effetti negativi, ma va ricordato che, paradossalmente, una eventuale iatrogenicità della psicoterapia depone in favore di una sua potenziale efficacia: non è un caso che i critici della psicoterapia (come ad esempio Eysenck) hanno sempre cercato di dimostrare che essa è inutile, non dannosa, ben consapevoli che una eventuale iatrogenicità della psicoterapia li avrebbe costretti ad ammettere anche una sua efficacia.

4) Qual’è il rapporto costi/benefici della psicoterapia?

E’ assai complesso calcolare il rapporto costi/benefici della psicoterapia, e i problemi concettuali e metodologici che circondano questo campo non sono meno complessi di quelli della stessa valutazione della psicoterapia (Office of Technology Assessment, 1980). Ancor più difficile è tradurre i benefici psicologici in unità monetarie.

Alcuni ricercatori hanno aggirato il problema analizzando i possibili valori cosiddetti di cost-offset della psicoterapia, cioè il guadagno in termini economici in altri settori dovuto alle ripercussioni del miglioramento dei pazienti (in termini di riduzione del tasso di utilizzo dei servizi sanitari, ad esempio appuntamenti ambulatoriali, test di laboratorio e giorni di ospedalizzazione); infatti, si postula che i pazienti non adeguatamente trattati a livello psicologico possano produrre il cosiddetto cost-shifting (Levin, 1985), cioè un “viraggio del costo” verso altri servizi sanitari scaricandovi il peso del proprio disturbo.

Jones & Vischi (1979) e Mumford, Schlesinger & Glass (1979) hanno concluso che la probabile stima della riduzione dell’utilizzo delle strutture sanitarie attribuibile ai pazienti che sono stati esposti a trattamenti psicologici varia dallo 0% a un massimo del 19%. In seguito Mumford, Schlesinger & Glass (1982) hanno studiato pazienti in psicoterapia affetti contemporaneamente da disturbi fisici e psichici, riportando che tali pazienti tendono a ridurre l’utilizzo di strutture mediche più rapidamente dei pazienti non in psicoterapia affetti solamente dagli stessi disturbi fisici. Essi riportarono inoltre che, in pazienti chirurgici o coronaropatici, l’utilizzo di servizi sanitari “psicologicamente informati” tende a ridurre la durata della ospedalizzazione.

5) Esiste una correlazione positiva tra risultati e durata della psicoterapia?

Inizialmente non si riusciva a trovare nessuna apprezzabile correlazione tra risultati e durata della psicoterapia (Smith, Glass & Miller, 1980; Shapiro & Shapiro, 1982), col risultato che si poteva desumere che la semplice durata della terapia probabilmente era meno importante della “intensità” o qualità del trattamento (Orlinsky & Howard, 1978). Negli anni recenti invece è sempre più emersa una correlazione positiva tra risultati e durata della terapia: più è lunga la terapia, maggiori sono i risultati e più è la probabilità che essi si consolidino (Orlinsky & Howard, 1986, p. 361; Orlinsky, Grawe & Parks, 1994, p. 360).

6) Esiste una correlazione positiva tra risultati ed esperienza del terapeuta?

Contrariamente al buon senso, e a quanto creduto in un primo momento, non si è ancora riusciti a dimostrare chiaramente che “l’esperienza di fatto fa la differenza” (Meltzoff & Kornreich, 1970; Bergin, 1971). Vari autori (Auerbach & Johnson, 1977; Parloff, Waskow & Wolfe, 1978; Orlinsky & Howard, 1986; Beutler, Machado & Neufeldt, 1994, pp. 248-250) hanno confermato che non disponiamo ancora di prove empiriche del fatto che un terapeuta esperto ottenga migliori risultati di un terapeuta meno esperto o più giovane: i dati sono controversi, probabilmente a causa delle troppe variabili che entrano in gioco (per fare solo un esempio, i terapeuti più esperti possono trattare i casi più gravi).

7) I risultati della psicoterapia sono stabili nel tempo?

Riguardo a questo problema, fino a tempi recenti si avevano dati contrastanti: mentre Frank (1982) riteneva che la maggior parte dei pazienti che mostrano un miglioramento iniziale lo mantiene nel tempo, altri ricercatori (Mash & Terdal, 1980; Andrews & Harvey, 1981) ritenevano che i risultati gradualmente diminuiscono anno dopo anno, tanto che Smith, Glass & Miller (1980) a questo proposito avevano cercato di consolarci: “Se è vero che i risultati della psicoterapia non sono stabili nel tempo, bisogna anche dire che ben poche cose al mondo lo sono”. I dati più recenti riportati da Lambert & Bergin (1994) indicano però che gli effetti della psicoterapia tendono ad essere abbastanza duraturi.

Discussione dei dati emersi dalla ricerca sul risultato

Innanzitutto vi è chi sostiene che i risultati positivi della psicoterapia possono essere degli artefatti, cioè che dipendano dall’effetto “placebo” o dai fattori “aspecifici” comuni a tutte le psicoterapie. Come si è già accennato, l’utilizzo del termine “placebo” in psicoterapia è assai problematico, perché presuppone già un accordo su quale aspetto del processo sia terapeutico. Se la psicoterapia funzionasse come placebo, questa sarebbe già una grossa scoperta scientifica, ma ci rimarrebbe da definire in cosa consisterebbe esattamente questo “placebo” e come potremmo riprodurlo in modo ottimale: in questo modo, esso ovviamente cesserebbe di essere un placebo. Analogamente, riguardo ai fattori “aspecifici”, si fa riferimento alla ipotesi di Frank (1961), il quale sostenne che se tutte le psicoterapie funzionano pur essendo diverse tra loro, evidentemente l’agente terapeutico deve risiedere proprio nei fattori comuni a tutte, e individuò questi fattori in determinate condizioni del setting e del rapporto terapeutico che servirebbero a inquadrare i problemi del paziente all’interno di una cornice esplicativa convincente. Frank ad esempio ha identificato quattro elementi fondamentali “aspecifici” condivisi da tutte le psicoterapie (vedi Parloff, 1985, pp. 25-28):

  1. I terapeuti offrono uno speciale tipo di rapporto: essi mostrano interesse per il benessere del paziente, ed incoraggiano la formazione di una relazione emotiva di fiducia e di comunicazione.
  2. L’ambiente (setting) della terapia è molto particolare: si fa in modo di creare nello studio o nell’istituzione psicoterapeutica un’atmosfera che incoraggi i pazienti a credere che essi sono in un luogo sicuro – un santuario – che è “sorvegliato da un tollerante protettore”.
  3. Il terapeuta fornisce uno schema concettuale: al paziente viene proposta una spiegazione per i suoi “irrazionali o sconcertanti comportamenti e stati soggettivi”, e viene detto come la terapia risolverà i suoi problemi. Le formulazioni devono essere convincenti per il paziente, cioè devono essere inserite nella “cosmologia dominante della sua cultura”. La accettabilità di queste formulazioni è rinforzata dalla copertura scientifica o religiosa.
  4. La terapia fornisce la prescrizione di un insieme di procedure basate sullo schema concettuale. Queste procedure costituiscono il veicolo e la giustificazione per il mantenimento del rapporto terapeutico. Le tecniche possono fornire al paziente una ulteriore prova della cultura e della competenza del terapeuta. Le tecniche dotate di un notevole impatto o che producono effetti drammatici, come certe alterazioni dello stato soggettivo o di coscienza, sono particolarmente utili per la loro funzione di sollevare il morale del paziente.

E’ ovvio che se i fattori “aspecifici” fossero i veri fattori terapeutici, essi diventerebbero automaticamente “specifici”, mentre quei fattori che molte psicoterapie ritengono specifici (cioè gli aspetti “tecnologici” dell’intervento, come ad esempio la interpretazione per la psicoanalisi, il decondizionamento per la terapia comportamentale, la modificazione delle credenze patogene per la terapia cognitiva, ecc.) diventerebbero automaticamente fattori “aspecifici”, una sorta di “razionalizzazione” della psicoterapia vera e propria. La risposta a questi problemi può venire solo dalle ricerche sul processo, isolando le singole variabili (o costellazioni di variabili) e studiandone l’efficacia relativa.

Un’altra critica frequentemente mossa è che le prove emerse dalle ricerche non sarebbero sufficienti per fare generalizzazioni radicali, e questo per due motivi principali. Secondo il primo motivo sarebbe prematuro sottoporre la psicoterapia a un rigoroso metodo di ricerca, in quanto troppo complessa.

Propongono quindi rigorose ricerche sul processo, anzi sui microprocessi, allo scopo di formulare microteorie del processo per cogliere il dato nel modo più preciso possibile. Ma, come osserva Parloff (1985, pp. 30-31), la strategia di separare nettamente la ricerca sul processo da quella sul risultato si rivela anch’essa di poca utilità. Inoltre esistono ostacoli formidabili nella ricerca sul processo: l’”effetto Rashomon”, per esempio, secondo il quale un singolo evento a volte viene percepito molto diversamente dal terapeuta, dal paziente e dal ricercatore, per cui non si sa bene in cosa consista l’obiettività del dato (il termine Rashomon deriva dal famoso film di Kurosawa del 1951). Questo problema (che per la verità è legato a tematiche ben più complesse, come la crisi del positivismo ottocentesco) è stato sempre tenuto presente dalla psicoanalisi, soprattutto dalla tradizione della psicoanalisi interpersonale, dove si sa che ogni evento viene comunque vissuto (o “costruito”) transferalmente – o, se è per questo, controtransferalmente. Si pensi ad esempio a quante volte un intervento non direttivo viene percepito come direttivo, oppure a come una supposta passività del terapeuta venga percepita come attività o viceversa (queste problematiche emersero chiaramente molto presto anche nei tentativi di Luborsky [1984, p. 72] di formulare il suo manuale, quando si accorse che era ben difficile distinguere le tecniche supportive da quelle espressive solo sulla base degli aspetti descrittivi – come se il manuale volesse essere una sorta di “DSM-III della psicoanalisi” – nel senso che alcuni interventi espressivi per eccellenza, come ad esempio la interpretazione, si caratterizzano proprio per la loro azione di “rafforzamento dell’Io”, quindi per la loro natura supportiva).

Il secondo motivo per cui le prove emerse dalle ricerche non sarebbero sufficienti per fare generalizzazioni radicali è legato al fatto che i dati emersi dalla ricerca non sono rappresentativi della pratica psicoterapeutica reale. Basti pensare che la grande maggioranza delle ricerche sono basate su studi di terapie comportamentali, mentre la grande maggioranza degli psicoterapeuti oggi praticanti sono di fatto ad orientamento psicodinamico (vedi anche Minguzzi, 1985). Dei quasi 500 studi esaminati da Smith, Glass & Miller (1980), solo il 13% riguardavano terapie psicodinamiche, mentre è ironico che una percentuale simile (il 14%) erano i membri dell’APA che proprio in quegli anni in una inchiesta dichiararono di essere comportamentisti (quindi potremmo dire che se l’86% dei terapeuti erano psicodinamici, questi erano rappresentati solo nel 13% degli studi). Inoltre in molti studi sono stati utilizzati terapeuti in formazione, come specializzandi in psichiatria o in psicologia clinica, quindi meno esperti dei terapeuti più anziani che sono più rappresentativi della pratica clinica reale.

FONTE: estratto dall’articolo pubblicato da © PSYCHOMEDIA – Paolo Migone, La ricerca in psicoterapia storia, principali gruppi di lavoro, stato attuale degli studi sul risultato e sul processo