Le parole sono sassi: educare alla parità attraverso il linguaggio

“Le parole sono sassi”. Questo il titolo del progetto realizzato dagli studenti della scuola media Arrigo Bugiani di Follonica, con l’obiettivo di comprendere e valorizzare il linguaggio di genere.

I risultati del lavoro sono stati significativi: i ragazzi “si sono resi conto di non aver mai fatto caso ai messaggi nascosti e sessisti in pubblicità ma anche nei testi dei loro cantanti preferiti (come alcuni noti rapper)” racconta Laura Parisi, docente responsabile del progetto.

Il linguaggio di genere è un tema sul quale gli animi si scaldano, tanto sui social quanto negli ambienti letterari, probabilmente perché, nella sostanza, la questione va ben oltre le parole: si mette in discussione un sistema consolidato che vede il prevalere di un genere su un altro.

“Le resistenze all’uso del genere grammaticale femminile per molti titoli professionali o ruoli istituzionali ricoperti da donne sembrano poggiare su ragioni di tipo linguistico, ma in realtà sono, celatamente, di tipo culturale; mentre le ragioni di chi lo sostiene sono apertamente culturali e, al tempo stesso, fondatamente linguistiche” scriveva Alma Sabatini in un saggio del 1987, intitolato “Il sessismo nella lingua italiana”.

La lingua italiana prevede grammaticalmente una declinazione di genere, basta consultare i principali vocabolari, uno per tutti lo Zingarelli. La declinazione al femminile dei nomi propri è la riprova di quanto sia sbagliato l’uso comune di declinare i nomi unicamente al maschile.

La scuola, luogo deputato alla formazione delle nuove generazioni, deve insegnare la lingua e, attraverso di essa, la parità di genere. Affinando la sensibilità dei giovani al linguaggio, si forniscono loro gli strumenti per “leggere” il mondo in cui vivono, riconoscere la discriminazione e il sessismo, e contrastarli.

La consapevolezza è il primo passo verso la comprensione e la prevenzione di un problema delicato e complesso come la violenza di genere: per combatterlo bisogna lavorare soprattutto sull’educazione, insegnando agli adulti di domani il rispetto per la figura della donna, troppo spesso soggetta a ingiustizie, condizionamenti e maltrattamenti per la sola, assurda “colpa” di appartenere a un genere diverso.

Oltre agli stereotipi sessisti, è necessario riconoscere i modi di esprimersi che fanno trasparire una grave mancanza di rispetto per le donne, a prescindere dal contesto in cui si verificano. Dall’ufficio alla vita di coppia, arrivando anche alla sfera familiare, le situazioni in cui è possibile assistere a comportamenti e linguaggi violenti sono davvero molte: è fondamentale saper riconoscere toni e parole che non sono mai giustificabili e che vanno intesi come campanelli d’allarme per possibili situazioni d’abuso fisico e verbale.

Qualche esempio concreto? Le più riconoscibili sono sicuramente le minacce, più o meno velate: “Prova a sentire ancora X (che può essere un amico, un collega o un ex fidanzato) e vedrai che succede”“Ti ho già detto mille volte che non devi azzardarti a contraddirmi” o “Se domani esci di casa vestita così vedrai che succede” sono tutte frasi che fanno intuire le conseguenze di un’ipotetica “disobbedienza” da parte della donna alla quale sono indirizzate. Sono quindi dei modi concreti finalizzati a condizionare e limitare fortemente la libertà di scelta e di comportamento, con lo scopo di affermare un’autorità indiscutibile all’interno della relazione.

Ci sono delle avvisaglie visibili anche prima di arrivare a questo livello di comunicazione violenta. Pensiamo ad esempio a quanto spesso vengono sottovalutate frasi come “Perché non mi hai risposto subito al telefono, con chi eri?”“Perché sei sparita, avevi così tanto da fare?”, oppure “Perché non mi hai detto che avresti incontrato la tua amica oggi?”. Alla base di domande apparentemente innocue come queste c’è una volontà di controllare e monitorare ogni singola azione dell’altra persona, che si ritroverà ad essere accusata di disinteresse o addirittura di tradimenti, e a giustificarsi e chiedere scusa per ogni minima mancanza di attenzioni, anche solo per assenze molto brevi.

Una tendenza al controllo come quella appena citata è accompagnata spesso da episodi di svalorizzazione, colpevolizzazione e manipolazione (nota anche col nome di gaslighting), che hanno lo scopo preciso e subdolo di andare a intaccare l’autostima e la sicurezza della vittima per indebolirla, facendole dubitare anche della sua stessa memoria e salute mentale. Frasi come “Stai zitta, non capisci mai niente”“È solo colpa tua, non lamentarti poi se divento aggressivo” o “Sei pazza, non è mai successo, ti inventi sempre tutto” sono assolutamente inaccettabili e possono sfociare in episodi di ulteriore violenza verbale (e non solo, purtroppo), con delle conseguenze anche molto gravi sull’equilibrio psicologico di chi li subisce in maniera reiterata.

il linguaggio violento non è solo quello che viene utilizzato direttamente verso l’interlocutore; se durante un dibattito qualcuno afferma senza troppi problemi che “Una che parla in questo modo uno schiaffo se lo merita proprio tutto” è ugualmente violento, poiché augura e giustifica una condotta del tutto errata, che porta con sé delle convinzioni deviate secondo cui una donna “che non sa stare al proprio posto” merita di essere rimessa in riga anche usando la violenza fisica.

Un altro esempio di violenza verbale, che fin troppe volte capita di ascoltare o di leggere negli ultimi anni, è il macabro augurio che molti fanno a chi partecipa a missioni e iniziative umanitarie verso rifugiati o immigrati: “Visto che li difende tanto, sicuramente le piacerebbe pure essere stuprata da questa gente”.

Al di là delle convinzioni politiche di ognuno, una frase così provoca danni su ogni fronte, portando avanti generalizzazioni, accuse e insinuazioni gravissime, spesso sminute come esagerazioni o addirittura come commenti goliardici.