Quando il paziente non torna: il Drop-Out

Quando il paziente non torna: il Drop-Out

Data di pubblicazione: 3 novembre 2019

Ciò che spinge una persona a rivolgersi ad uno psicoterapeuta è, nella maggior parte dei casi, un vissuto di disagio, generato da una “crisi di decisionalità”: una condizione di stallo, da cui la persona non riesce ad uscire autonomamente.

Tuttavia il periodo che precede il primo contatto con un professionista è spesso denso di dubbi e resistenze, tanto che ci sono persone che pensano per mesi, o addirittura per anni alla possibilità di chiedere un sostegno psicologico, ed altre che possono non arrivare mai a questa decisione.

Per questo, riuscire prima a telefonare, e poi a recarsi dallo psicoterapeuta, viene generalmente vissuto con sollievo, come se la difficoltà più rilevante fosse appena stata superata.

Sicuramente la capacità delle persone di aggirare le proprie paure e le proprie reticenze, rivolgendosi ad un professionista, dimostra la presenza di risorse importanti.

Ma affacciarsi ad un percorso “immaginato” è cosa diversa dal percorso vero e proprio.

Non è in fondo questo secondo il momento in cui il paziente deve necessariamente e finalmente confrontarsi con la realtà della relazione terapeutica ed essere in grado di sostenerla?

Potrebbe, allora, essere questo uno scoglio ancora più grande del precedente?

Presumibilmente si, visto che l’esperienza del drop out è comune a tutti gli psicoterapeuti a prescindere dal loro orientamento e dalla loro esperienza.

Con il termine “Drop out”, che in inglese significa “ritirarsi”, ci si riferisce a quel fenomeno in cui un paziente interrompe prematuramente il percorso psicoterapeutico intrapreso.

Alcuni pazienti, seppur giunti in psicoterapia perché spinti da difficoltà che li avevano motivati ad incontrare lo psicoterapeuta, decidono improvvisamente di interrompere il percorso nella sua fase iniziale(dal primo incontro ai primi 3 mesi), a volte comunicando al terapeuta la propria decisione, altre volt, invece, senza alcuna comunicazione in merito.

Si tratta, in realtà, di un evento che si verifica anche in altri ambiti: un utente smette di avvalersi di un servizio prima che quel servizio sia stato compiuto nella sua interezza.

Una scelta dell’utente quindi, evidentemente legittima e conseguente al precoce raggiungimento dell’obiettivo, o al contrario alla sua insoddisfazione: un fenomeno “lineare”, basato su una logica di tipo “causa-effetto”, che sembrerebbe non necessitare di alcun tipo di approfondimento.

Se forse questo può essere vero in altri contesti, può essere riduttivo ragionare in questi termini anche nel caso della psicoterapia.

Il percorso psicoterapeutico è infatti un processo in cui non si cercano cause di effetti, ma piuttosto nessi e significati: anche un fenomeno come il “drop out” va significato, compreso e quanto più possibile prevenuto.

Ma quali possono essere le ragioni per cui si decide di interrompere un trattamento al suo inizio e senza quindi essersi dati l’opportunità di trarne beneficio?

Chi si rivolge uno psicologo, lo fa con tutta una serie di aspettative sull’incontro con lo psicoterapeuta e sulla psicoterapia.

E proprio le divergenti aspettative del paziente e dello psicoterapeuta, rappresentano uno degli elementi alla base della scelta di abbandonare il percorso appena intrapreso.

Spesso i pazienti arrivano in terapia convinti di trovare un operatore pronto ad elargire consigli: su come comportarsi in una data situazione, come risolvere un sintomo, come aiutare un’altra persona etc.

Come se lo psicoterapeuta fosse depositario di un sapere “assoluto” ed il suo compito fosse quello di insegnarlo al paziente.

Altre volte, il paziente identifica la figura dello psicoterapeuta con quella del medico, presentandosi quindi al professionista come un malato che deve essere curato, possibilmente con precisione chirurgica e rapidità farmacologica.

Il paziente sembra quindi mettersi, almeno inizialmente, in una posizione di “attesa” verso la risoluzione proposta dal clinico.

Niente di male: il paziente va in psicoterapia per fare il paziente e sta allo psicoterapeuta cercare di stimolare nuovi punti di vista.

L’esistenza stessa della psicoterapia dipende dalla Partecipazione di entrambi i componenti della coppia psicoterapeutica: dipende, in sostanza, dal nascere di una Relazione.

Naturalmente il fenomeno del drop out è molto complesso e dipendente da molteplici altre variabili.

Gli studi condotti in proposito hanno dimostrato, per esempio, una correlazione tra drop out e variabili quali l’età, il sesso e le caratteristiche socio demografiche dei paziente; tratti caratteriali dello psicoterapeuta etc.

Tuttavia ciò che può essere interessante in questa sede è indicare l’influenza sul fenomeno della motivazione del paziente al trattamento, che in qualche modo mette in gioco anche lo psicoterapeuta e la sua abilità di entrare in relazione con il paziente.

La motivazione è un concetto che di per sé risulta vago e che deriva da altre componenti, come per esempio la presenza di obiettivi a lungo termine; la necessità di ottenere un cambiamento, la risoluzione di alcuni sintomi o la mancata risoluzione degli stessi; la capacità di tollerare la frustrazione che il trattamento inevitabilmente comporta; l’inclinazione ad accettare spiegazioni di tipo psicologico.

Compito dello psicoterapeuta non può essere quello di farsi carico completamente di una motivazione che nasce in primo luogo dal paziente stesso; ma può essere quello di contribuire ad alimentarla, attraverso la propria presenza, attraverso il reale interesse –professionale ed umano- verso la persona che si ha davanti e attraverso il proprio autentico impegno.

Per questo, il fenomeno del drop out deve sempre interrogare il paziente come lo psicoterapeuta, sul significato dello stesso e può rappresentare un importante spunto di riflessione su come ci si è posti in quella relazione.

La relazione psicoterapeutica infatti è una relazione che vive su un piano totalmente unico rispetto alle relazioni che normalmente ciascuno di noi vive nel proprio quotidiano.

Essa si muove su una dimensione di tipo professionale, centrata sul raggiungimento di obiettivi concordati e ridefiniti nel tempo.

Ma resta comunque una relazione umana, centrata su affetti ed emozioni; e che di ricordi, affetti, emozioni e relazioni tratta.

Non può pertanto che essere un gioco di squadra, dove esistono le scelte del singolo individuo, su cui l’altro non può incidere e dove esiste contemporaneamente un terreno di collaborazione e reciprocità.

Il drop out si inserisce in questo terreno in maniera sfumata, rappresentando a volte una scelta indipendente dall’intervento, altre volte l’effetto di una corresponsabilità, che si gioca tuttavia sul silenzio di parole non dette ed emozioni vissute, il cui esito è la separazione.

Quest’ultima è una scelta che va rispettata e che ha sicuramente un senso: spesse volte anche durante i primi colloqui si attivano per altro risorse e riflessioni che sono utili al paziente e che possono anche generare circoli virtuosi.

Resta tuttavia importante il confronto su questa stessa scelta ; o quanto meno, se questo confronto proprio non è possibile, è importante che questa scelta non venga chiusa in un cassetto e resa muta, ma che divenga uno spunto per cogliere nuovi significati e nuove strade.

Fonti: Cognitivismo clinico (2006) “ll drop out nei disturbi di personalità: una review degli studi degli ultimi vent’anni” (K. Aringolo)

Cognitivismo clinico (2008) “il drop out nella terapia cognitivo-comportamentale: risultati da uno studio-caso controllo” (A. Rossi et al.)