La sofferenza emotiva espressa nel corpo: l’autolesionismo…

Autolesionismo significa causare, in modo intenzionale e ripetitivo, un danno al proprio corpo  (senza intenzionalità suicidaria) al fine di trovare sollievo da una sofferenza emotiva.

Le modalità possono essere le più svariate: tagli (cutting), bruciature (burning), lividi, escoriazioni, strapparsi i capelli, ingerire veleni o oggetti. 

Il tipo di lesione riscontrata più frequentemente è il cutting, che significa tagliarsi/lesionarsi la pelle con l’utilizzo di lamette o qualsiasi altro oggetto affilato (chiodi, forbici, coltelli, fermagli, pezzi di vetro).

Nel DSM-IV (APA, 1997) i comportamenti autolesionistici erano menzionati come uno dei criteri identificativi del Disturbo Borderline di Personalità (BPD). Sebbene alcune ricerche abbiano confermato l’esistenza di una forte relazione fra l’autolesionismo e questo disturbo di personalità (Klonsky, Oltmanns e

Turkheimer, 2003; Stanley, Gameroff, Michalsen e Mann, 2001; Van der Kolk, Perry e Herman, 1991; Zlotnick, Mattia e Zimmerman, 1999), tali modalità comportamentali si riscontrano anche in altre categorie diagnostiche (ad esempio nei disturbi d’ansia, depressione, abuso di sostanze, disturbi alimentari, schizofrenia e altri disturbi di personalità). Inoltre, molti degli individui che manifestano ricorrenti atti autolesionistici non soddisfano totalmente i criteri per il Disturbo Borderline di Personalità.

Successivamente, nel DSM V (APA, 2014) è stata introdotta, all’interno delle “Condizioni che necessitano ulteriori studi” la categoria diagnostica di “Autolesività non suicidaria – ANS” (NSSI – not suicidal self injury). Secondo questa classificazione diagnostica l’individuo si infligge ripetutamente lesioni, superficiali ma dolorose, sulla superficie corporea spesso al fine di ridurre emozioni negative (tensione, ansia, auto rimprovero) oppure per risolvere una difficoltà interpersonale.

L’autolesionista riferisce spesso una sensazione immediata di sollievo che ha durante il verificarsi del processo; inoltre, se l’atto autolesivo si verifica frequentemente rischia di assumere le caratteristiche di una dipendenza (pertanto le lesioni diventano sempre più numerose e profonde).

L’autolesionismo oggi è un fenomeno che assume proporzioni tali da considerarsi un vero e proprio problema sociale. È sempre più diffuso tra gli adolescenti (periodo in cui spesso comincia a presentarsi) ed i giovani adulti. Le stime di questo fenomeno per  variano molto poiché nella maggior parte dei casi gli atti di autolesionismo e le ferite consequenziali non comportano la necessità di un ricovero. Solitamente, quando si arriva al ricovero l’atto autolesionista più frequente è l’autoavvelenamento. Pertanto, tenendo presente che l’atto più comune è, come abbiamo precedentemente detto, il cutting, si ipotizza una sottostima degli atti autolesionistici (soprattutto tra gli adolescenti).

La comorbilità

Le condotte autolesive correlano con maggiore impulsività, uso di sostanze e alcool, tentativi suicidari, disturbi di personalità, disturbi alimentari, disturbi dell’umore, abuso sessuale, esperienze dissociative (Ostruzzi, Pozzato, 2009).

L’incidenza dell’autolesionismo è più elevata tra la popolazione psichiatrica, in particolare tra i soggetti affetti da disturbi dell’umore e/o disturbi d’ansia e nelle persone caratterizzate da alti livelli di disregolazione emotiva (Klonsky, 2007). Inoltre l’autolesionismo in adolescenza è associato con depressione, stress, ansia, disturbi della condotta e abuso di sostanze (Nock et al., 2006), e con relazioni familiari disfunzionali, isolamento sociale e basso rendimento scolastico (Fliege et al., 2009).

In questi soggetti vi è una elevata frequenza di disturbo dell’immagine corporea e di disturbo di personalità. 

Nei soggetti borderline i comportamenti autolesionistici sono estremamente frequenti (75-90%) e possono essere intensi (Winston, 2000); inoltre, si associano anche a disturbi internalizzanti (specialmente disturbi affettivi, ma anche sintomi ansiosi e somatoformi) (Haw et al., 2001) accompagnandosi spesso a episodi di dissociazione (Gratz, Conrad, Roemer, 2002).

Le funzioni dell’autolesionismo

Il corpo è diventato un mezzo per comunicare le proprie emozioni, appartenenze, ideologie, ansie. È come se fosse un foglio su cui disegnare la propria sofferenza: la sofferenza psicologica diventa a volte talmente intensa che, non avendo parole adatte a descriverla, l’unico modo per non esserne schiacciati è esprimerla attraverso il corpo (Ostruzzi e Pozzato, 2009).

L’autolesionismo pu  avere la funzione di una punizione autoinflitta oppure quella del mostrare agli altri, attraverso delle evidenze fisiche, la propria sofferenza interiore, il proprio disagio (Klonsky, 2007). 

Chi si taglia o si brucia per , è raro che lo faccia davanti ad altre persone e il più delle volte cerca di tenere nascosto questo comportamento, perché se ne vergogna.

La funzione più frequente dell’autolesionismo, infatti, risulta essere quella di servire come regolazione emotiva.

Le difficoltà emotive vengono vissute, specialmente in adolescenza, con un’enfasi sul corpo (dalla somatizzazione, al procurarsi ferite, all’utilizzo sregolato del proprio corpo, alle condotte alimentari, sessuali e alle dipendenze), riportando una difficoltà ad entrare in contatto con le proprie emozioni, a livello sia corporeo che psicologico.

L’autolesionismo è descritto in letteratura come una sorta di strategia di coping che, per quanto disadattiva, viene utilizzata poiché aiuta a gestire stati emotivi percepiti come non tollerabili e non gestibili. Permette di scappare da uno stato della mente percepito come insopportabile (Ostruzzi, Pozzato, 2009).

Gli adolescenti che compiono gesti autolesivi riportano che tale comportamento li distrae da pensieri non desiderati, da emozioni negative troppo intense da sopportare (rabbia, tristezza, solitudine). Dicono di farlo per sentirsi vivi, per sentirsi meglio, per avere sollievo da uno stato di confusione o tensione. 

Così l’attenzione dal dolore mentale passa al dolore fisico e col farsi male la persona ha l’illusione di avere ripreso il controllo su se stessa e di aver trovato un sollievo… perché dopo il dolore c’è il sollievo. Il dolore aiuta a recuperare il contatto con se stessi, a dare la sensazione di essere in grado di controllare, se non la propria vita, almeno il proprio corpo. 

Si potrebbe dire che la messa in atto di comportamenti autolesivi sia un tramutare in sofferenza fisica (quindi più reale e più facilmente gestibile) una sofferenza emozionale che non si sa come gestire: per un po’ ci si occupa solo del dolore fisico, distogliendosi temporaneamente     da        quello interiore.

L’infliggersi dolore, la vista del proprio sangue, consentono di avere una prova tangibile che la propria sofferenza è reale, che c’è qualcosa di concreto e visibile per cui provare dolore. Per altri adolescenti tagliarsi è un modo per sentirsi vivi: meglio un dolore fisico che non sentire niente o sentirsi vuoti e inutili.

Sembra che mettere in atto condotte autolesive non solo riduca l’intensità dei vissuti negativi, ma produca anche emozioni positive ed è proprio questo aspetto uno dei fattori cruciali per mantenere nel tempo tali comportamenti (Andover e Morris, 2014).

Un punto di vista neuroscientifico

Dal punto di vista neuroscientifico, uno studio di Helmchen et al. del 2006 ha rilevato che le aree del cervello che codificano l’intensità del dolore (nell’insula e nella corteccia sensomotosensitiva secondaria S2) non differenziano tra stimoli dolorosi generati dal contesto esterno e quelli autoprodotti. 

Durante l’autoproduzione di dolore, invece, la corteccia somatosensitiva primaria (S1) presenta una minore attivazione.

Alla luce di tali risultati, è possibile ipotizzare da un punto di vista psicologico che l’autolesionismo porti il corpo/la mente a preferire un dolore proveniente dall’interno, al fine di evitare un dolore più intenso proveniente dal mondo emotivo/relazionale. In questo modo, anche a livello fisiologico, emerge come l’evitare il contatto con le proprie emozioni, attraverso l’autoinfliggersi dolore, abbia un effetto meno doloroso rispetto al venire in contatto con le emozioni stesse (Marchetti, Cavalli, 2013).

L’autolesionismo, inoltre, sembra essere un modo per “aggiustare” i livelli di endorfine. Infatti, da un lato i soggetti che mettono in atto tali condotte presentano un decremento di betaendorfine nel liquor (Stanley et al., 2010) dall’altro, come avviene in generale nella nocicezione, il dolore provocato da tali condotte causa un rilascio di endorfine, che distrae dai sentimenti spiacevoli e dalla loro mentalizzazione (Gratz, 2003).

Infine, le ricerche hanno evidenziato, utilizzando diverse metodologie, una disfunzione del sistema serotoninergico (bassa attività serotoninergica) nelle persone che compiono atti autolesivi (Herptertz, Sass e Favazza, 1997) che costituisce il correlato biologico dei comportamenti impulsivi e aggressivi. Quando si impedisce il riassorbimento della serotonina nel terminale presinaptico attraverso l’uso di farmaci (ottenendo più serotonina nella fessura sinaptica), si rileva un effetto di riduzione dell’aggressività in soggetti impulsivi con un disturbo di personalità (Coccaro, Kavoussi e Hauger, 1997).

Come lavorare con l’autolesionismo 

Attualmente è ancora aperto il dibattito su quale sia il modo migliore per curare l’autolesionismo.  A volte l’ospedalizzazione è il primo contatto con questi pazienti ed è un punto di partenza fondamentale per una corretta diagnosi e un corretto trattamento sia farmacologico (se necessario) che psicoterapico.

La farmacoterapia

La terapia farmacologica con antidepressivi comporta diversi rischi, tra i quali un aumento del rischio di suicidio nelle prime fasi dell’assunzione del farmaco (soprattutto nelle fasce di età più basse). Tuttavia, alcuni recenti studi mostrano che il beneficio ottenuto attraverso la somministrazione di antidepressivi inibitori selettivi del reuptake della serotonina possono superare i rischi che questa comporta.  Gli ansiolitici in questo caso non sortiscono l’effetto desiderato e addirittura risultano controproducenti.

Numerosi studi sono stati fatti sul carbonato di litio che, tenendo conto dell’instabilità affettiva ed emotiva di questo disturbo, ne suppongono l’efficacia.

Uno studio di Gardner e Cowdry (1985) dimostra come l’uso della carbamazepina (anticonvulsivante) sia particolarmente efficace nei disturbi che implicano acting-out etero e autoaggressivi ma ha lo svantaggio di non avere effetti (o addirittura averne di negativi) sul tono dell’umore.

Inoltre, l’impiego della psicoterapia si è dimostrato più efficace rispetto al solo impiego dei farmaci e al tempo stesso appare potenziare l’effetto della terapia farmacologica (Cotugno, Benedetto, 1995).

La psicoterapia

È importante comprendere gli stati d’animo antecedenti all’agito autolesivo e aiutare il soggetto a cercare strategie comunicative diverse (Ostuzzi, Pozzato, 2009).

Spesso i trattamenti per i comportamenti autolesivi non sono specifici per queste condotte, ma sono degli adattamenti di trattamenti creati per condizioni correlate (come il Disturbo Borderline di Personalità o le tendenze suicidarie). Diverse tipologie di intervento (tra cui la Dialectical Behavior Therapy – DBT, la terapia di gruppo sulla regolazione delle emozioni, la psicoterapia dinamica, l’utilizzo di psicofarmaci) sembrano essere efficaci nel riuscire a ridurre le condotte autolesive.

Stando a quanto sostenuto nella ricerca condotta da Harrington & Saleem (2002), l’approccio cognitivo – comportamentale sembra essere elitario per la progressiva riduzione ed anche per la prevenzione di sintomi autolesivi nei pazienti di Asse I.  Questo perché la terapia cognitivo – comportamentale non solo pone attenzione sugli aspetti irrazionali e cognitivi dei pensieri negativi che precedono l’atto autolesivo, ma si compone anche di moduli prettamente comportamentali.  Cerchiamo a questo punto di delineare brevemente la Dialectical Behaviour Therapy (DBT) di Marsha Linehan, una terapia ideata per il trattamento ambulatoriale di pazienti con disturbo borderline di personalità e con comportamenti suicidari cronici. Questa è stata la prima tecnica psicoterapica per i soggetti borderline sperimentata con successo in uno studio controllato e pubblicato (Linehan, 1993). Il modello DBT prevede, nello specifico, il ricorso a setting multipli di trattamento: individuale, gruppo di skill training (alla presenza di conduttore e co-conduttore), coaching telefonico e gestione del caso in équipe.

Secondo M. Linehan la partecipazione alla terapia individuale è un requisito fondamentale per il trattamento ed il terapeuta individuale si configura come il principale referente del paziente all’interno dell’équipe di lavoro; mentre la terapia di gruppo, dall’impronta maggiormente psicoeducativa, vi si affianca. Le procedure di skill-training vengono utilizzate nei casi in cui il paziente non possieda nel suo repertorio comportamentale le abilità necessarie per risolvere un problema (Linehan, 2011). La maggior parte delle ricerche sul concetto di disregolazione emotiva e sulla sua implicazione nelle condotte autolesive non suicidarie trova una base proprio nella teoria di Marsha Linehan. Per vulnerabilità emotiva l’autrice intende che tali soggetti esperiscono le emozioni in modo più intenso, sono più suscettibili agli stimoli emotigeni (sia positivi che negativi) e ritornano più lentamente a uno stato affettivo di base (Linehan, 2011).

La regolazione emotiva richiede due capacità: l’abilità di sentire ed etichettare le emozioni provate e l’abilità di ridurre gli stimoli emotivamente rilevanti, che potrebbero causare la riattivazione di emozioni negative/positive oppure risposte emotive secondarie (Andover & Morris, 2014).

A tale proposito, Marsha Linehan teorizza che l’invalidazione precoce da parte del proprio ambiente di crescita, (“l’ambiente invalidante”), pu  far sì che il bambino non sia in grado di apprendere strategie funzionali di coping finalizzate al riconoscimento e alla conseguente regolazione delle emozioni, o apprenda strategie inadeguate. Di conseguenza, forti evidenze empiriche vanno a sostegno degli interventi (come appunto la DBT) che hanno come specifico focus il miglioramento delle abilità di regolazione emotiva (Linehan, 1993). Tra i principali obiettivi della regolazione emotiva troviamo: 

  • Il conoscere, denominare e discriminare le varie emozioni
  • L’inibire comportamenti inappropriati legati a forti impulsi negativi o positivi
  • Lo smorzare le risposte fisiologiche indotte da intense esperienze emotive
  • Il rifocalizzare l’attenzione
  • Il riorganizzarsi in vista di un’azione coordinata al conseguimento di uno scopo esterno

Con il tempo la DBT si è dimostrata efficace per la riduzione di: comportamenti impulsivi, agiti autolesivi, drop – out, ospedalizzazioni, burnout degli operatori. In parallelo questa tecnica incrementa le abilità psicosociali, aumenta la motivazione al cambiamento e soprattutto sostiene il terapeuta nell’affrontare, con strumenti definiti, i problemi dei pazienti (Linehan, 2011).